2015 in Music (Part 2)

è Domenica, è una giornata splendida nonostante sia Gennaio, si stanno sciogliendo i ghiacci e tutto ciò ci rende più ilari e gaudenti perchè presto potremo andare al mare anche se abitiamo ad Aosta. Come altro passare la mattinata se non chiudendosi in camera, serrare tutte le tapparelle e vivere con una doverosa dose di presomalismo? E come lo curi il presomalismo? Finendo la top ten che ho interrotto per cause di forza esterne! Ecco come passare la domenica. Il Tedio non finisce mai!

5.

FRom Sleep

from SLEEP – Max Richter

Ho già parlato in questa sede di Max Richter, di quanto la sua musica sia interessante, complessa, evocativa e al contempo accessibile, e di quante fregnacce ci leghi dietro io alle cose che fa, a causa di mie vecchie paturnie personali. Erano un po’ di anni che il compositore che mischia musica elettronica, ambient, classica e minimal non faceva uscire un album completo. E io soffrivo perchè sì, ok, van bene le miriadi di colonne sonore che a momenti Morricone ce fa na pippa, però a me i pezzi da un minuto scarso van bene solo se ti chiami GG Allin o Henry Rollins e nel microfono ci stai vomitando dentro, e allora te lo puoi permettere perchè sei meglio te. E allora mi deve aver sentito, e bene pure, anche se in realtà questo non è realmente un album. from SLEEP è un estratto di un’opera della durata complessiva di 8 (OTTO) ore, ideata da Richter come accompagnamento al sonno notturno (chiamata per l’appunto SLEEP). Un estratto di un’ora, per noi bambini speciali che abbiamo i deficit di attenzione e non riusciamo a stare attenti ad un film in streaming per più di venti minuti consecutivi, a meno che non siano film sulla caduta del Reich o, alternativamente, su Spongebob. Ecco, però, cioè, insomma, io vorrei anche cercare di capire cosa passava nella testa di Richter quando ha pensato “questa musica sarà il perfetto accompagnamento per una sana dose di sonno ristoratrice”, perchè è evidente come 1) chi ascolta Richter la notte NON DORME, bensì fa un uso prezioso delle ore notturne per fissare il vuoto fumando sigarette nella penombra e 2) from SLEEP non ha nulla a che vedere con musica che davvero poteva accompagnare momenti di sonno come ad esempio Brian Eno, Fripp, Harold Budd e compagnia (poco) cantante. Ogni brano è una ricerca ossessiva di un percorso a partire da un qualche aspetto del brano. Path 5 si articola lungo una tortuosa ripetizione di quella che pare una voce spettrale, ad accompagnarla solo una tastiera che andrebbe molto bene come colonna sonora per scenari apocalittici. Dream 13 è un ostinato al pianoforte con un violoncello che, lento e grave, insiste su degli intervalli lunghi e autunnali, mentre Dream 8 ricorda le sinfonie dei neo-romantici tedeschi di inizio 900 nei loro momenti più cupi, lenti, e teatrali. Il capolavoro della selezione è però all’inizio, Dream 3 (In the midst of my life), tutto imperniato su un pianoforte muto, quasi inesorabile nel ripetere continuamente il giro di accordi, accordi che seguono pedissequamente il ritmo, facendo cadere l’ascoltatore in una sorta di trance ad occhi aperti, una marcia verso il vuoto o il buio, mentre ancora un violoncello canta senza sprecare parole di una, della nostra, caduta verso il terreno, verso la fine. Questo è un album da psicopatici, e io ho una predilezione per gli psicopatici (e le psicopatiche a quanto pare, ma sono altre storie). Quando una colonna sonora per il sonno ti da come unico effetto l’aumento della veglia perchè la musica è tanto bella da averti indotto una paresi facciale a bocca spalancata, beh, lì capisci che dormire è davvero inutile e che non potremo chiamarci civilizzati finchè non ce ne saremo liberati.

4.

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The Magic Whip – Blur

Forse a qualcuno sarà capitato, forse ad altri no, ma immaginate per un momento di essere a casa, tranquilli, a fare le vostre faccende, a perdere tempo dopo una giornata trascurabile. E suona il citofono. Vi alzate, andate a rispondere e sentite “Ciao, sono io, hai un attimo?”. Quel “sono io” lo dice la vostra ex o il vostro ex che non vedete da anni, una persona che volenti o nolenti ha condizionato una buona parte di chi siete ora. E non sapete cosa fare, e scendete e la vostra espressione e il vostro comportamento è un imbarazzante misto tra “come stai? è un sacco che non ci vediamo” e “oddio perchè sei qua?”. Ecco, pensate se gli anni in questione fossero 12, e a momenti non vi ricordate nemmeno come era il suono della sua voce, ma appena inizia a parlare non potete negare che non poteva essere altrimenti. Questa è la sensazione che ho avuto ascoltando il ritorno dei Blur, 12 anni dopo Think Tank. 12 anni dopo Out of Time e quel video assolutamente desolante girato su una portaerei, che io guardavo su MTV Select mentre ingenuamente aspettavo passasse un qualunque video cagata degli U2. 12 anni dopo che il mondo dell’alternative rock, a tratti cupo, a momenti vitale, decise di farmi visita. 12 anni sono tanti, troppi, ma non te la senti di mandare via quella persona. Allo stesso modo non ti senti di mandare via Damon Albarn e Graham Coxon. Ed è la scelta giusta, o almeno, se non giusta, l’unica che potevi effettivamente perseguire. Concepito in 5 giorni ad Hong Kong, The Magic Whip vuole riprendere il filo del discorso esattamente dove Think Tank l’aveva lasciato. Non vuole suonare moderno, non si riveste delle influenze dell’indie UK sorto dopo il 2003, o di quello americano votato alternativamente al post-core o ad atmosfere sognanti. The Magic Whip non ha paura di voler suonare come l’alternative che, se non li aveva resi famosi (lo erano già), aveva perlomeno fatto capire a tutti che le capacità di Albarn e soci erano in una lega tutta loro e con i fratelli Gallagher non c’entravano un cazzo. L’opener Lonesome Street dimostra il tipico suono di chi ritorna sulle scene e non vedeva l’ora di farlo in questa veste. Go Out insegue un ritmo ipnotico a pedali schiacciati, ricordando a momenti i Radiohead più rumorosi da The Bends a Bangers and Mash. Il divertissement musicale, che ha sempre caratterizzato i Blur, è ovviamente presente in brani come I Broadcast (dove Albarn tira fuori tutto il suo accento dell’Essex senza ritegno) e la marcetta Ice Cream Man. Tra momenti Pop più o meno rilassati (Ghost Ship), l’apice dell’album sono però i pezzi più introversi, quelli dove senti dove è nato l’album, dove è avvenuto l’incontro fatale rimandato troppo tempo. Il neon di Hong Kong è nelle sue torri e negli accordi spettrali che emettono (New World Towers), è nella direzione marziale, tecnocratica e nichilista di There are too many of us, o nella desolazione della sua controparte, Pyongyang, tra note che tremano e preannunciano spaesamento, alienazione, rovina incombente. Son passati 12 anni, son tanti, troppi, e non ci sarà mai tempo di dire tutto quello che si è pensato di dire, si avrebbe voluto dire, le parole che corrono troppo in fretta nella mente per essere espresse. Però intuisci che è tutto ancora lì, che The Magic Whip  è la lettera che avresti voluto ricevere in tutti quegli anni e ora ti è declamata di persona dopo anni di pudore. E in fondo, se non sapessi che è del tutto fuori luogo, alla fine ci scapperebbe anche un ultimo limone in nome dei vecchi tempi andati.

3.

Wilderness

Have You in My Wilderness – Julia Holter

Io ho un problema. Sento già le voci di chi commenta “UNO SOLO?” ma non ti curar di loro, guarda e passa. Ho un problema dicevo: se mi innamoro non posso essere oggettivo. Peggio ancora, se mi innamoro la cosa diventa una ossessione. Ecco, mi sono innamorato di Julia Holter, perchè se una tizia mi tira fuori un album del genere deve essere la donna più bella del mondo. Già con Loud City Songs avevo avuto qualche sentore, ma qui c’è la conferma, quella strana sensazione che hai al pub con amici e dopo un po’ che conosci una persona, quella sera hai la netta impressione che lei si differenzi da tutto il resto. Lo so che tra quello che scrivo ora e la recensione precedente con le sue metafore ardite sembro un romantico piagnone. La realtà è che lo sono. Ma io vi sfido a trovare un’altra artista che sia capace di comporre un album così e soprattutto di reggerlo tutto insieme con la sua voce, voce che non è spaziale, non salta tra acuti e note di petto, ma è vera, viva, vissuta, complessa, introspettiva, discreta in certi momenti. Forse solo Grouper riesce a fornire qualcosa del genere, ma il capolavoro Ruins è del 2014. Nonostante i brani abbiano tutti come perno la sua voce, ogni brano dimostra una complessità e una abilità di arrangiamenti e composizione che lasciano completamente a bocca spalancata. Solo i primi due brani potrebbero bastare per dimostrare le capacità musicali (e dunque non solo vocali) della Holter, e sarebbero sufficienti per reggere tutto il disco. Feel You e Silhouette sono un concentrato di strumenti, ritmo, produzione eccelsa ma impiegata sapientemente in servizio di brani solidi, scritti magistralmente, e senza perdere mai un momento di magica e della dimensione evocativa della sua voce. Everytime Boots, tra accordi di pianoforte e una linea vocale quasi giocosa e sediziosa è un esempio di come si possa e si debba fare musica indie adesso, senza pose, senza pretese di essere quello che non si è. Senza fare gli hipster a cazzo di cane insomma. Ci sono i pezzi più lenti, quelli più cristallizzati entro lo scambio tra note scarne e voce grave e a momenti minacciosa, quasi soul, come in How Long o nel delirio onirico di Night Song, tra archi e poche note di voce e tastiere, solo quelle necessarie a dare il tono, il tema, l’orizzonte di questo lungo monologo, un dialogo tra la Holter e qualcuno che non si riesce ad identificare e che sembra rimanere stranamente silente. C’è anche spazio per la sperimentazione prettamente strumentale in bilico tra jazz e un pizzico di avanguardia come in Vasquez. E poi c’è lei, il capolavoro del disco, quella When the Sea Calls me Home che mi ha fatto capire tutto di quest’opera, e mi ha fatto capire come questa sia una artista speciale. When the Sea Calls me Home è la God Only Knows del 2015. Stesso ritmo, stesso cambio di accordi, stesso approccio alle armonie vocali, stesso slancio liberatorio, stessa cadenza. God Only Knows (per chi non lo sapesse, storico brano dei Beach Boys) è un brano molto importante per me; potete allora forse capire cosa vuol dire incontrare un brano che te lo ricorda in ogni aspetto ma è comunque diverso, indipendente, suo. Come scoprire che per quella persona che col tempo è diventata per te diversa da tutte le altre, beh, forse la cosa è reciproca. L’ho già detto che non sono oggettivo in queste situazioni?

2.

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Purple – Baroness

Tre anni ci son voluti. Tre anni e un incidente con il tour bus che poco ci mancava e faceva finire i Baroness come Cliff Burton o i Decapitated quasi al completo. Tre anni e un nuovo tastierista. Tre anni e un nuovo batterista. Ma finalmente è arrivato Purple, il seguito del doppio album Yellow&Green (indovinate come si chiamavano gli album precedenti? Un mongolino d’oro a chi ci arriva) che tanto ci aveva fatto godere nel 2012. O meglio, godere la gente normale, io ho ancora qualche problema ad ascoltarlo poichè fu la colonna sonora della mia folle scrittura della tesi triennale nel Gennaio 2013 quando ero a Konstanz. Tre giorni e tre notti di pura follia che faccio fatica a dimenticare. Ma chissenefrega! Anche se ora non posso più ascoltare Yellow&Green c’è il degno successore! Questi stronzi da Savannah, Georgia, un posto dove non capisci come sia possibile permettano di suonare metal perchè a momenti vanno ancora in giro con la cintura di castità, e invece ha pure una scena musicale piuttosto elaborata, sono evoluti, ma sono ancora loro. Il suono è ancora quello, ma è la direzione del lavoro che si rinnova. Non più sludge metal, non solo quantomeno, non esclusivamente fango, accordature in drop e spinelli. Non solo atmosfere drone da post-metal, anzi, quasi nessuna ormai. I Baroness intraprendono una sfida, coniugare la melodia al loro stile, ai loro cambi di tempo, alla voce urlata, ai loro breakdown che non c’entrano nulla e non c’entreranno mai nulla con la merda metalcore. E la vincono sta stracazzo di sfida, perchè ogni brano è un sapiente connubio di complessità prog e sludge, che non si perde mai in scelte, cambi, o soli fini a se stessi. Ogni singola linea di ogni singolo brano è indirizzata alla coesione, all’impatto, al ritmo. Il tutto risultando incrediblmente moderni ed incredibilmente melodici, senza suonare mai stucchevoli. Qualche purista storcerà il naso, pensando che la musica sia morta dopo i Kyuss o i Godflesh. Ma i Baroness il naso glielo raddrizzano a suon di cartoni in faccia. Perchè nonostante tutto questo è ANCORA un album massiccio, forse più di Yellow&Green dato il suo essere un disco singolo. Un brano come Kerosene è un assalto all’ascoltatore che resiste al confronto con qualunque produzione post-metal da quando gli ISIS (no, non quelli che vedete in tv, altri) si sono sciolti. Il disco è dominato da una vasta dimensione”anthemica”, cioè questi sono brani che si cantano a squarciagola al concerto, un inedito quasi nei generi metal che non siano l’Heavy o i Metallica (anche perchè per il resto, sono quasi tutti generi dove si rutta o robe alla Dream Theater dove ogni tentativo è destinato al fallimento), basti ascoltare all’incedere di The Iron Bell o al fulcro del disco, ovvero la quasi suite Chlorine and Wine, una cavalcata post-metal tra momenti di tranquilltà strumentale ed esplosività vocale. Ma il capolavoro è forse all’inizio del disco, la fantastica Shock Me, ottima candidata a brano del 2015, una canzone con una energia e una carica incomparabili, senza sacrificare, ancora una volta, melodia e cantabilità. Purple dei Baroness ha raggiunto l’agognato status di “album che posso ascoltare mentre corro”, spodestando ultimamente Are you Driving me Crazy? dei Seam. Certo, c’è quel piccolo problema che mi fa correre a velocità inaudite e quando finisco il percorso torno a casa avendo lasciato per strada due terzi di polmone, una rotula e avendo venduto il quadricipite su ebay sotto la categoria “usato da rottamare”. Ma cosa volete che sia? Si vive bene anche senza. Senza Purple dei Baroness invece no. Ignavi.

1.

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In Colour – Jamie xx

Sono ufficialmente preoccupato. Credo comincerò nei prossimi giorni ad aumentare il livello di paranoia che solitamente mi contraddistingue perchè tutto ciò non è possibile. Non è giusto, e sento che qualcuno questa scelta me la farà pagare. Più precisamente ho come l’impressione che il me diciassettenne metallaro, se sapesse della mia scelta di premiare come album dell’anno un disco che mischia elettronica, hip-hop e ambient, prenderebbe volentieri una macchina del tempo per farmi visita e si dedicherebbe ad una dimostrazione pratica dei consigli elargiti in Hammer Smashed Face dei Cannibal Corpse. Ma non ce n’è. Non è possibile sfuggire a questo verdetto. Non era possibile nemmeno farlo sotto la guisa di una scelta dettata dall’originalità, giacchè questo album un po’ tutto il mondo lo ha proclamato secondo migliore disco dell’anno dopo il sempiterno Lamar. Ma, ripeto, NON-CEN-N’è. Tutto di quest’album è perfetto, e se un disco così lontano dai miei stilemi classici è capace di piacermi così tanto senza cadere in facili clichè o soluzioni che convincono solo sulla medio-breve lunghezza, allora è lì che capisci che ti trovi in effetti di fronte ad un album spettacolare. Ho aspettato 5-6 mesi, immaginando che non potesse essere possibile come verdetto, aspettando l’arrivo di qualcuno o qualcosa che lo scalzasse, e devo dire che gli altri album sul podio ci sono arrivati vicino, ma senza mai impensierire seriamente Jamie Smith, in arte Jamie XX. Perchè sì, il produttore e membro degli XX (CHE FANTASIA PER I NOMI DICO IO), non sbaglia nulla, nemmeno nei brani che potrebbero sembrare i più ordinari come la opener Gosh, dove uno snippet in loop da un programma della BBC è capace di dettare una cadenza blues tra sequencer e suoni stile glitch. Ma non è solo questa capacità di utilizzare strumenti triviali per fornire brani spettacolari la forza dell’album; ogni collaborazione è al posto giusto, è pesata e interpretata dagli artisti in maniera funzionale al disco. I due brani cantati dalla collega di band Romy, Seesaw e sopratutto Loud Places sono inni alla gioventù vissuta in musica, tra un open air sulla terrazza del Badeschiff a Schlesisches Tor, le pasticche di MD e il sole che fa capolino tra le nuvole. C’è spazio per l’elettronica più minimale, ritmata e ipnotica come in Hold Tight, ispirata dalle trance e dalla deep house dei migliori club europei. C’è la 2-step-dub e la jungle come in Obvs o Sleep Sound, suono in presa diretta dalla scena Londinese che tanto riesce ad insegnare alla musica elettronica contemporanea (ma in fondo lui è inglese, se non le fa lui ste cose qui chi?) o la progressione spiazzante e sperimentale di The Rest Is Noise, dove Jamie XX gioca con il pianoforte e i pad per fornire qualcosa che richiama esplicitamente i suoni e le atmosfere di due guru della minimal e della sperimentazione elettronica moderni come Jon Hopkins e soprattutto Nils Frahm. Queste influenze si trovano anche nei brani forse meno considerati, come la brevissima Just Saying, che dura di meno di due minuti, ma è la colonna sonora più spettacolare alla scena di una città che scorre sotto i tuoi piedi mentre la attraversi in treno all’aperto. Ma forse il vero gioiello non c’entra nulla con tutto ciò. Il vero gioiello del disco nasce da un sampling di un brano di un gruppo a CAPPELLA, i The Persuasion, che viene fuso all’hip-hop del rapper Young Thug e alle influenze reggae del jamaicano Popcaan. I know there’s gonna be (Good Times) sviluppa un groove in crescendo, un ritmo quasi tribale, urlato, inno alla speranza, inno a tutto quello che verrà, sperando davvero che tempi migliori siano dietro l’angolo. Sette anni ci sono voluti a Jamie Smith per questo suo debutto solista, e non ricordo molti altri debutti che siano riusciti a mettere d’accordo praticamente chiunque su ogni suo aspetto. Sette anni ci son voluti a me per mettere sta roba in cima al podio delle uscite annuali. Ora ho due problemi 1) un hype altissimo per qualunque altra cosa che farà uscire, sia come solista che con gli XX e 2) un me teenager incazzatissimo che vuole farmi la pelle perchè ho tradito tutto quello che lui difendeva. Lo vedo già dietro ogni angolo. Ho bisogno di un bodyguard. O di medicine più efficaci. A voi il verdetto. Io il mio l’ho già raggiunto. E vi ricordo che è insindacabile.

Thanks for all the Fish

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